Con la sentenza n° 22 del 22/02/2024, la Corte Costituzionale ha inciso sulla normativa prevista dal jobs act, ampliando di fatto i casi di reintegra del lavoratore sul posto di lavoro, in caso di licenziamento nullo.

È utile una breve premessa.

Jobs act e licenziamento nullo

Il Decreto legislativo n. 23/2015, attuativo del c.d. Jobs Act (Legge n. 183 del 2014), riguardante il “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” ed applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore della norma.

Tale Decreto prevedeva la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro solo in caso di licenziamento dichiarato nullo perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.

L’intervento della Corte Costituzionale

Ebbene, la CorAppalto non genuino: inefficace il licenziamento da parte dell’appaltatorete Costituzionale con la suddetta sentenza, ha stabilito che la previsione della reintegra nel posto di lavoro per i soli casi di nullità espressamente previsti da una legge, non è da ritenersi legittima, in quanto limitazione non prevista nella legge di delega al Governo (legge n° 183/2014 c.d. Jobs Act), la quale prevedeva la reintegra del lavoratore in tutti i casi di “licenziamenti nulli”, quindi senza alcunadistinzione.

Pertanto, evidenzia la Corte Costituzionale, si è in presenza della violazione dell’art. 76 della Costituzione, che limita l’esercizio della funzione legislativa in capo al Governo solo nei limiti dei principi e dei criteri previsti dalla delega fornita dal Parlamento.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte Costituzionale ha ritenuto costituzionalmente illegittima e, di fatto cancellato, la parola “espressamente”, dall’articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n° 23.

Le conseguenze future

A seguito di tale pronuncia, potrà essere stabilita la reintegra nel posto di lavoro in tutti i casi in cui sia violata una normativa che prevede il divieto di licenziamento in presenza di determinati presupposti, anche se la disposizione imperativa violata non indica espressamente la sanzione della nullità: è il caso della vicenda portata all’attenzione della Corte Costituzionale, che riguardava un lavoratore che aveva impugnato il licenziamento deducendo la nullità del recesso per violazione delle norme imperative in materia di procedure per l’irrogazione di sanzioni disciplinari (la Corte di Appello di Firenze, precedentemente investita della questione, aveva sì riconosciuto la nullità del licenziamento, ma aveva al contempo escluso la reintegra del lavoratore in quanto nella fattispecie non rientrava nei casi di nullità

espressa previsti dall’articolo 2, comma 1, del D.lgs. 23/2015).

Tale decisione apre sicuramente nuovi scenari e costringe il datore di lavoro ad una maggiore attenzione e valutazione dei provvedimenti disciplinari che comportano il licenziamento del lavoratore, al fine di non incorrere in una nullità, con conseguente obbligo di reintegra del lavoratore, con tutto ciò che consegue in termini economici e di equilibrio aziendale interno.

Su questo sarà utile valutare le prossime pronunce giurisprudenziali sul punto.